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L’autunno di Marthe Bonivier


          di Massimo Legnani


In primo piano un’unica foglia dalla perfetta forma stellata e dai colori ancora vivaci. È quasi verticale sul terreno, solo di poco inclinata all’indietro, come se cadendo dall’albero si fosse infilzata nella terra umida a quel modo. Intorno, sfocate, un mare di foglie morte.
La donna, seduta su una panca di marmo al centro della sala, sta osservando la fotografia. È lì, immobile, da almeno un’ora. Ha un aspetto trasandato e un volto sfatto, gonfio in modo innaturale. Mi fa pensare a un cadavere rimasto troppo tempo in acqua. Qualcosa in lei m’incuriosisce, gli occhi ancora lucenti, forse, o l’intensità con cui fissa l’ingrandimento fotografico. Mi siedo anch’io, al suo fianco, e provo a dire:

- È un incanto, questa fotografia.
- No. È un’immagine ingenua, iperbolica. Il giallo e il rosso della foglia sono troppo violenti, inverosimili.
- Probabilmente è uno scatto al tramonto, con il sole basso alle spalle che satura i colori.
- Certo. Ma questo provoca troppa enfasi, come tanti punti esclamativi al fondo di una frase che di per sé sarebbe stata accettabile.
- Mi scusi, non riesco a capire: secondo lei è una brutta fotografia, eppure quando sono entrato lei era già qui; ho fatto il giro della mostra e ancora la trovo a fissare quest’immagine. Perché?
- È il libro della mia giovinezza. Ero una ragazza esuberante, inquieta.
- Non comprendo.
- È stato mio zio a dare un senso alla mia irrequietezza. Pensare che gli altri l’avevano soprannominato “L’apostrofo”. L’o-zio, capisce? Credevano non facesse mai niente e invece io sapevo che lui ci seguiva con un’attenzione silenziosa. Seguiva noi nipoti e cercava con un affanno inapparente soluzioni al nostro crescere tumultuoso. Un giorno mi mostrò la sua Nikon.
- Ma lei è Marthe Bonivier?- chiedo stupefatto, indicando con un gesto della mano le altre foto appese alle pareti.
- Stia zitto.- La donna per la prima volta si guarda intorno, preoccupata che qualcuno possa aver sentito.- Sembrava annoiato, lo zio, mentre mi spiegava il funzionamento della macchina, ma era la sua tattica per incuriosirmi. Ci cascai in pieno. Per qualche settimana fotografai tutto quello che mi capitava a tiro. Poi tornai da lui, mostrandogli i risultati. Lo zio sorrise, ma scosse la testa. “Hai fatto in fretta ad imparare, ma queste sono solo immagini. Le poteva fare chiunque. Non vedo la mia Marthe, qui dentro.” Ero delusa, ma lui mi scompigliò i capelli. “Vai in giardino e cerca un particolare che ti smuova, guardalo e aspetta a scattare che diventi come uno specchio.”
- È di quel giorno questa immagine?
- No.

L’anziana signora sbuffa e non mi guarda. Sembra seccata dalla mia presenza. Poi, come pressata dal mio silenzio, aggiunge:

- Di qualche tempo dopo, quando lui morì. Gli altri in casa a rendergli un omaggio di facciata, elogiandolo da morto e sparlandone da vivo. Io spersa in giardino a cercarlo in una foglia.
- Questa foglia.

Marthe Bonivier alza il bastone in un gesto minaccioso che si spegne per stanchezza.

- Mi lasci in pace. Sono così stanca e lei così insistente. “Questa foglia”- dice facendomi il verso-, ma che ne sa lei di questa foglia?
- Mi perdoni, non volevo infastidirla. È che mi affascina poterla ascoltare. Lei non sa quante volte ho sfogliato le sue immagini restandone incantato. Ora che la ho qui, vorrei sapere da lei il mistero che c’è dietro ogni sua opera.

Un sospiro prolungato che finisce in un sibilo asmatico è l’unico suo commento. Ma la mano nodosa che serrava il bastone sembra rilasciarsi lentamente. Non oso parlare, so che presto lo farà lei.
- Avrei dovuto smettere quel giorno, abbandonare la mia arte prima che esplodesse. Col tempo le immagini, più delle parole, ti si ritorcono contro.
- Non è soddisfatta di essere diventata famosa?

Finalmente mi guarda. Ed è uno sguardo indulgente, nonostante il rimprovero:

- Giovanotto, io sto parlando d’altro. Parlo di queste mie creature- e alza il bastone con imprevisto vigore ad indicare le fotografie appese- non le riconosco più. Questa maledetta foglia…

Tace la signora Marthe. Non riesce a staccare gli occhi dall’immagine che certo conosce a memoria. Un tremito sottile le agita il mento. Poi rompe il silenzio con una voce più affannata:

- Credevo, quel giorno, di aver racchiuso in questa fotografia il senso della morte di mio zio: staccato dal ramo, ma ancora splendido. Perché lui era silenziosamente splendido, radioso, e tale è rimasto a lungo dentro di me. Lo vede questo giallo luminoso al centro della foglia, il rosso infuocato delle punte? Ecco, mi erano sembrati perfetti per dire di lui. Per anni ho creduto che fosse la perfezione, questa foto; la guardavo e non vedevo una foglia, ma lui che ancora irradiava la sua luce.
- E adesso cos’è cambiato?
- Adesso provo orrore a guardarla. Questa maledetta foglia. È come se fossi davanti a uno specchio in cui non vorrei riflettermi.
- Ma, anche se fosse uno specchio, rimanda una bella immagine. L’ha detto lei stessa. - Fandonie. Illusioni di gioventù. Mistificazione dell’arte. Imbroglio che ha retto per anni, finchè non ho detto basta.
- Non la seguo, signora.
- La verità, che solo ora comprendo, è che quel giorno ho fotografato la mia morte.
- Eppure c’è qualcosa di vivo in questa immagine.
- Infatti in qualche modo sopravvivo, ma sono morta da un pezzo. Forse sono morta quel giorno, con il mio primo e ultimo entusiasmo, come questa foglia che non era mai stata tanto bella finchè era attaccata al ramo.

Mi sgomenta l’amarezza della donna. Forse, non sapessi che è stata una grande fotografa, la lascerei ai suoi piagnistei di vecchia. Ma così, ripensando a quanto mi ha dato per anni trasformando semplici oggetti in materia viva, non riesco a restare indifferente al suo travaglio. Provo a sfiorarle una mano e, per smuoverla da quei pensieri, le dico:

- Lei doveva essere bellissima.
- Oh sì, ero davvero bella e facevo bene il mio mestiere. Ma ho sperperato tutto. Mi guardi- e di nuovo indica la foglia col bastone, anziché se stessa.- lo sa che questa foglia che le piace tanto, se la prendesse in mano, si sbriciolerebbe in un orrendo crepitio. Sono decrepita, ecco l’unica verità di questa fotografia.

Le tengo una mano tra le mie, è gelida e trema come una lucertola infreddolita. Marthe Bonivier mi sembra sfinita. Mi parla in un bisbiglio:

- Mi porti via di qui. Mi fa troppo male guardarmi allo specchio.

La prendo sottobraccio e ci avviamo lentamente verso l’uscita. Incrociamo parecchie persone che stanno entrando per visitare la mostra.

Nessuno riconosce nella vecchia che mi sta a fianco la donna famosa che sorride dalle locandine dell’ingresso.

[07/12/2007]



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