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Andiamo a dar da mangiare ai pesci




     Per la stagione estiva i nonni paterni, gli unici che io abbia conosciuto, affittavano un paio di camere a Lavagna, cittadina del Levante ligure, presso una pensionata, che viveva sola in un ampio appartamento e si rifaceva così delle molte spese che la proprietà comportava.
La buona educazione e la volontà di continuare quella specie di sodalizio, per altro ancora molto diffuso nelle cittadine di villeggiatura verso la fine degli anni cinquanta, facevano sì che i disagi, che questa convivenza inevitabilmente comportava, venissero sopportati di buon grado.
Nonna Ester, cresciuta in collegio dalle monache, come lei stessa teneva a ricordare, molto riservata e di buon carattere, usava tutti i riguardi possibili per non dare disturbo, nonostante l’uso dei servizi e della cucina fosse in comune.
Il nonno, uomo tranquillo e gioviale, lo si sarebbe anche potuto dimenticare, tanto bene riusciva a mimetizzarsi con le pareti domestiche, spesso immerso nella lettura di un giornale o appisolato sulla sua poltrona. Come ogni buon napoletano che si rispetti, egli lasciava che tutto scorresse intorno a lui, senza scomporsi, ma diveniva improvvisamente loquace quando gli si presentava l’occasione di rispolverare ricordi del suo passato.
Da parte sua la padrona di casa pareva godere della loro compagnia, come una parentesi attesa, dopo il lungo inverno di solitudine ed ogni anno salutava con gioia l’arrivo dei nonni e parimenti, a fine stagione, la rattristava la loro partenza.
Per tutto questo anche la mia presenza era accettata di buon grado, così anch’io potevo trascorrere al mare alcune settimane d’agosto e di queste vacanze con i nonni conservo ricordi assai piacevoli.



     Nonno Mario diceva: “Andiamo a dar da mangiare ai pesci” riferendosi a quel passatempo che, nei pomeriggi estivi, ci portava fino al moletto. Qui, camminando sulla massicciata fra le rocce, raggiungevamo i nostri angoli preferiti, dove un sasso, più piatto e regolare degli altri, veniva scelto come sedile o per posarvi le attrezzature.
Io mi aggiravo volentieri fra quei massi, che divenivano un’ottima palestra per piccole acrobazie, un parco giochi naturale, perfettamente attrezzato ed un meraviglioso punto d’osservazione per spiare la vita sott’acqua: ricci, molluschi, granchiolini, qualche pesce di piccola taglia e le chioccioline di mare, che emergevano e scomparivano con il fluire dell’onda, le uniche che riuscivo a catturare con il mio retino.
Ricordo la rilassante sensazione di solitudine, che avvertivo in quei luoghi, nonostante la presenza di altre persona poco lontane; lo sciabordio dell’acqua fra le rocce copriva le loro voci ed acuiva questo piacevole senso d’isolamento.

     La piccola folla dei pescatori, già appostati, riduceva un poco le nostre possibilità di scelta, ma ognuno aveva le sue preferenze ed i più esperti si avventuravano su grosse rupi sporgenti a strapiombo sull’acqua, in equilibrio instabile su appigli ristretti o contro pareti rocciose quasi verticali.
Trovato il luogo idoneo, nonna Ester sistemava prima la solida seggiola pieghevole per il nonno, quindi la sua. Poi cominciava il rito delle canne e delle lenze: le prime, composte ciascuna da tre pezzi in bambù, erano da montare, le seconde da svolgere con cura, per evitare il formarsi di nodi, prestando attenzione a non pungersi con gli ami, che finivano sempre ovunque, sui vestiti, sulle maniche delle magliette o s’incastravano fra le fessure delle rocce.
Allora si richiedeva il mio intervento per recuperarli con garbo e prudenza. Avevo poco più di otto anni, ma ero abbastanza abile in quelle attività manuali, come nel maneggiare le perline delle mie collane. Le due cose avevano in comune il filo di nylon, che avevo imparato ad usare anche per infilare i corallini colorati. I nodi me li stringeva la nonna ed il gioco era fatto: una collana così era praticamente indistruttibile.
Anche i galleggianti colorati ed i piombini per le lenze stuzzicavano la mia curiosità, ma non ce n’erano in quantità sufficiente per poterci giocare. Ogni pezzo veniva acquistato sfuso nelle apposite botteghe: il denaro circolava nelle tasche dei nonni, ma non così abbondante da poterlo sperperare in moderne e leggere canne da pesca, con mulinello da lancio.

     In questa cornice aromatizzata dalla salsedine, nulla poteva offendere le nostre narici, già avvezze all’odore dei resti delle altrui pesche “miracolose”, sparsi un poco dappertutto, a terra e nell’acqua, già visitati dai gatti randagi, che facevano la posta nelle vicinanze.
Così si scartavano finalmente i maleodoranti fagottini del formaggio e del pane, senza che nessuno accennasse al pur minimo disappunto: era il momento d’impastare gli ingredienti per le esche.
Anch’io m’impegnavo ad ammorbidire molliche e puzzolenti pezzetti di formaggio, come maneggiassi plastilina, anzi con maggiore impegno, già che mi sentivo investita di grande responsabilità. Mi pareva di risentirli i discorsi sulla via del ritorno dalle pesche precedenti:
“Ci voleva più formaggio, la prossima volta proveremo con quell’altro più grasso… hai visto quanti ne hanno presi i vicini con il loro impasto? Tutta colpa dell’impasto…”
Ogni volta ci riprovavamo con nuovi ingredienti, fiduciosi sul buon esito.
Per abboccare, i pesci abboccavano, anzi mangiavano di buon appetito, come diceva il nonno, ma non restavano quasi mai appesi all’amo!
Avevo imparato anch’io a “caricare” gli ami, cioè a nasconderli nelle piccole palline di esca, poi li passavo ai nonni, che cercavano di lanciare le lenze il più lontano possibile.
Cominciava allora l’ipnotica, ossessiva, interminabile osservazione del galleggiante, dei suoi movimenti ondeggianti in balia del moto ondoso, in attesa di quei cerchi che si formavano intorno, quando finalmente qualche pesciolino ci provava.
La piccola boa affondava solo un poco e poi tornava a galleggiare, l’amo subiva altri attacchi, ma quella restava sempre a fior d’acqua, fino a che la quiete totale ci avvertiva che il piccolo pasto era stato consumato tutto.
Ogni tanto capitava anche che la nonna recuperasse con esultanza la lenza con appeso un guizzo argenteo, piatto e tondo come una grossa moneta e la cosa mi lasciava un poco perplessa.
Solo i grandi trovavano il coraggio di staccare dall’amo quei boccheggianti malcapitati per deporli nella sporta di vimini, munita di coperchio e chiusura annodata, a prova di gatto. Ma prima me li lasciavano tenere un poco nel secchiello, riempito d’acqua salata: li guardavo affascinata, senza riflettere sulla loro bocca ferita dall’amo e soddisfatta d’avere un nuovo gioco su cui concentrarmi. I loro movimenti catturavano la mia attenzione e sarei rimasta ore ad osservarli, ma li immaginavo anche già infarinati e fritti.
Perché no? Era il loro destino ed era già segnato, lo avevo già accettato in partenza. Faceva parte del gioco.


[23/01/2004]


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